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DECAMERINO 18° Giorno - 'A rena 'e Palmarola - di Raffaele Zocchi - 2^ parte - Ass. Cala Felci

DECAMERINO 18° Giorno – ‘A rena ‘e Palmarola – di Raffaele Zocchi – 2^ parte

Proseguono i racconti del nostro piccolo Decameron al tempo del Corona virus. Ecco a voi la seconda parte del libro di Raffaele Zocchi.

‘A RENA ‘E PALMAROLA

RAFFAELE ZOCCHI – PARTE II

 

LA SIRENA

Sta sul ruvido scoglio

pensosa e immota

la bella sirena mirando

il mare dove al cielo

si congiunge.

Non la consola

la ritmica carezza

dell’onda placida,

né lacrima le asciuga

di ponente la fresca brezza.

Il suo amato delfino

attende che le riporti

quel mare che la sua

voglia di avventura

lo spinse ad esplorare.

Il canto suo d’amore

si spande all’infinito

riempie di desiderio

il pescatore fervido

e l’errabondo marinaio.

 

 

Perché, Ulisse, perché?

Né delle sirene l’ammaliante canto,

né di forme e colori la divina armonia

valsero a indurre il girovago Ulisse

a fermarsi e trovar riparo e sosta

nell’isola che appar nel sol nascente,

petrosa e ruvida, sì come la sua Itaca.

Ma, dell’ignoto il fascino, della

scoperta il gaudio, delle diomedee

il libero concerto ebbero il sopravvento

e l’Itacense seguì il suo destino,

l’onda marina era la sua anima.

la conoscenza la sua ragion di vita.

iL CICLOPE DI PIETRA

Ogni volta che passava con la sua barchetta sfiorando il capo della Guardia, l’imponente mole della montagna emergente dal mare gli suggeriva l’immagine di un mostro, una creatura mitica, un essere pietrificato a metà strada tra un ciclope ed un elefante. In effetti la parte superiore della montagna, snella e svettante, era sormontata da un faro, che una fervida fantasia poteva assimilare all’unico occhio di un ciclope, con la differenza che questo era un occhio capace di guardare a trecentosessanta gradi e di emettere raggi di luce visibili a molte miglia, che dicevano ai naviganti: attenzione, attenzione, qui c’è un’isola! La parte inferiore del mostro, invece, era veramente massiccia e la conformazione naturale, a cui si era aggiunta l’erosione del mare, le avevano conferito una forma simile a zampe di pachiderma, ferme a sfidare i marosi. Era una vera sfida, quella tra il ciclope e il mare: “Vieni, vieni, sembrava dire il primo, attaccami pure con la violenza dei tuoi flutti: non mi farai un baffo, le mie fondamenta sono robuste, la mia roccia è dura e compatta, e neanche con l’aiuto di Eolo e dei suoi figli, il capriccioso scirocco e il teso maestrale, riuscirai a scalfirla!” In effetti da millenni il corpo del ciclope resisteva ai furiosi attacchi del mare, mentre le altre coste nelle vicinanze si sgretolavano, si frantumavano, si “sgarrupavano”, come si diceva nel dialetto locale. Tra Vincenzino, tale era il nome del ragazzo protagonista di questa storia, e il ciclope di pietra si era stabilito un curioso rapporto: era come se si parlassero, comunicando attraverso un fluido indefinibile e una misteriosa, impalpabile forza li attraesse l’uno verso l’altro. Attraversando quel tratto di mare, Vincenzino sentiva dentro come un magone, un richiamo ancestrale di cui aveva anche un po’ paura. Un giorno a scuola aveva studiato le avventure di Odìsseo, in particolare il suo incontro con Polifemo: ecco che da quel giorno aveva preso l’abitudine di chiamare Polifemo quel maestoso ammasso di rocce. Non che a scuola fosse particolarmente brillante: faceva quel tanto che gli bastava per raggiungere la sufficienza; ma tutto quello che riguardava il mare, suscitava un grande interesse nella sua testolina di ricci neri. Era, Vincenzino, un ragazzo “normale” (come ce n’erano e ce ne sono tanti!), ma aveva sviluppato quello che si chiama sesto senso, una particolare sensibilità, una specie di antenna nascosta che gli consentiva di percepire segnali che altri non potevano percepire, di cogliere l’essenza delle situazioni, di capire i sentimenti nascosti degli altri. Questa sua dote poteva essere, però, anche causa di sofferenza. Sua madre, da cui la aveva probabilmente ereditata, un giorno gli aveva detto: “Figlio mio, tu hai lo stesso dono mio: ma non lo so se è veramente un dono o se ti darà più dolore che gioia!” Fino a quella mattina, in realtà, gli effetti del suo sesto senso non erano andati al di là di piccole intuizioni come quelle, ad esempio – che si rivelavano molto utili – di capire se il professore aveva in mente di interrogarlo, se era ben disposto, se erano in arrivo scapaccioni dal padre e così via. Ma quel giorno, fin da quando all’alba era uscito con la sua barchetta per andare a pescare, un turbamento si era impadronito di lui, un groppo che dallo stomaco attraverso la gola raggiungeva il cervello e gli metteva addosso un’estrema malinconia. Non soffiava un alito di vento. Il mare era una distesa d’olio e la temperatura si era subito alzata sotto l’incalzare del sole: i vecchi marinai che avevano attraversato il mondo, dicevano che nei mari orientali quella situazione di calma, di totale assenza di vento era considerata di malaugurio, presagio di sciagure, come epidemie a bordo, improvvise bufere e apparizione del demonio sotto forma di mostri marini. Ma non era questo a turbare Vincenzino, anche perché nei nostri mari le paure e le angosce erano sempre legate ai venti di levante o di ponente o alle onde dirompenti, e mai alla bonaccia. Era una sensazione mai provata, indefinibile, come se il suo subconscio avesse stabilito un contatto, una connessione, un link, direbbero i patiti informatici, con qualcosa o qualcuno che era capace di orientare le sue azioni indipendentemente dalla sua volontà. Questo stato d’animo si accresceva a mano a mano che si avvicinava al capo della Guardia. In piena trance, Vincenzino entrò con la barchetta in una di quelle fenditure profonde della montagna, avanzò fin dove poteva, poi ormeggiò la barca alla maniera isolana: l’ancora a poppa e una cima di prora legata a una sporgenza della roccia. Un tuffo, poi una rapida immersione e una scoperta: nella parete di roccia, meno di un metro sotto il pelo dell’acqua, si apriva un passaggio da cui filtrava una tenue luce. Vincenzino senza timore si inoltrò nel cunicolo sottomarino sbucando, dopo pochi metri, in una caverna enorme, adorna di infinite stalattiti che si protendevano e si specchiavano nelle calme acque sottostanti, in cui si intravedevano nuotare cernie e saraghi e ricciole e spigole e pezzogne e cefali e occhiate e sorci e triglie e sarpe e scorfani e cocci e nuvole di guarracini, di pinterré e di vope, mentre sul fondo perchie curiose seguivano polipi e murene maculate tra gli scogli ricoperti di patelle e punteggiati da ricci multicolori, come multicolori erano i rametti di corallo tra la posidonia verde e le gialle cornicole. La cosa strana era che, nonostante la scarsa luce che proveniva da un’apertura circolare nella volta, tutto lo scenario sottomarino era perfettamente visibile, anche grazie all’assoluta trasparenza delle acque il cui colore variava dal verde smeraldo in corrispondenza del raggio di luce, al blu cobalto nelle aree più recondite della grotta. Alcuni lettori, più inclini all’ironia, si chiederanno se per caso si trattava di una vasca di piscicultura: ma evidentemente essi hanno smarrito il piacere dell’affabulazione, che pur devono aver provato da bambini. Vincenzino naturalmente rimase a bocca aperta, e stava già pensando a come cercare di attingere al tesoro ittico che aveva sotto di sé, quando una voce cupa, profonda, ma non ostile, uscì da una delle aperture laterali che, con singolare simmetria, incidevano le pareti della caverna. “Ciao Vincenzino, non ti spaventare, io ti conosco bene e non ho alcuna intenzione di farti del male. Io sono lo spirito che abita il Faro della Guardia, ne sono l’anima e il difensore. Come tu hai immaginato – io ti leggo nel pensiero, sai! – sono un ciclope, ultimo discendente della razza dei ciclopi che un tempo abitavano le coste del mare Tirreno e che oggi, grazie all’opera distruttrice della razza umana, si sono estinti. Noi eravamo i difensori delle coste e delle isole, le facevamo resistere agli assalti del vento e del mare ma nulla abbiamo potuto contro gli assalti dell’uomo e del suo cemento armato. Il ragazzo, che nel frattempo si era ripreso dallo spavento iniziale procurato dalla inattesa presenza, chiese: “Come ti chiami, ciclope? Polifemo, forse? E quanti anni hai? E ti posso guardare in faccia?” “Ehi, cuoncio cuoncio, rispose il ciclope. Quante cose vuoi sapere, ragazzino! Allora, io mi chiamo Monofemo, perché, a differenza del mio antenato Polifemo, che fu accecato dal tuo antenato Odìsseo, parlo poco e non mi ripeto mai, al contrario di quello che fanno i vostri uomini politici. Io non ho età, essendo nato dalla fantasia dei poeti e non da una ciclope in carne ed ossa. No, non mi puoi vedere, perché io sono uno spirito, il mio corpo è questo monolite roccioso e il mio occhio è il faro, che nessuno ha mai potuto accecare, ed è proprio questo che mi ha salvato dalla cupidigia degli uomini. Ma ora ti voglio fare un regalo!” Dalla fenditura della roccia furono lanciate tre conchiglie che Vincenzino prontamente afferrò al volo. Si trattava di quelle conchiglie che vengono chiamate, in dialetto, scuncigli, del tipo particolare detto anche occhi di Santa Lucia, perché ricordano gli occhi ritratti sulle icone della santa. Il loro guscio variegato aveva tre tonalità di colore diverse: giallo, rosso e verde. Ecco – diranno gli stessi lettori di prima – l’autore si è inventato il semaforo marino! Ma io non mi curo di loro, …guardo e passo! “Queste tre conchiglie sono magiche, Vincé – disse il ciclope. – Puoi usare quella gialla e quella rossa se ti trovi in situazioni di grave pericolo, mentre quella verde la puoi usare per esprimere un tuo desiderio. In tutti i casi dovrai stringerle in pugno, gridare “Aiuto ciclope!” e gettarle in mare. Hai capito?” “Sì ciclope, grazie!” “Ed ora vai – esclamò Monofemo – per oggi ho parlato fin troppo!” Vincenzino rifece il percorso all’incontrario, salì sulla sua barchetta e si accinse a uscire dalla montagna per riprendere il mare, ma ebbe una brutta sorpresa. Mentre lui era dentro l’antro del ciclope, di fuori si era scatenata una vera bufera di scirocco e mezzogiorno. Onde altissime si infrangevano contro le rocce e la povera barchetta non avrebbe avuto nessuna possibilità di cavarsela. Non gli restava allora che provare le virtù magiche delle conchiglie. Afferrata quella rossa, gridò “Aiuto, ciclope!” e la gettò nel mare in tempesta, che miracolosamente intorno a lui ridivenne liscio come l’olio. Essendo ancora presto, il ragazzo decise di farsi una bella pescata in un posto che solo lui conosceva: ma le avventure quel giorno non erano ancora finite. Quando si trovava tra i faraglioni della Madonna e lo scoglio rosso, Vincenzino vide venire verso di lui un motoscafo d’alto mare, a tutta velocità, almeno 30 nodi, ad occhio
e croce, nonostante si fosse sotto costa. Era uno scafo del tipo detto “Squalo”, e infatti aveva la sagoma di uno squalo disegnata sulla fiancata. Alla guida vi era un tipo palestrato, abbronzato, bandanato che si muoveva al ritmo di un disco neomelodico a tutto volume e, incurante delle segnalazioni di Vincenzo, si appressava a passargli accanto se non addirittura a investirlo. Anche stavolta non vi era scelta, se non ricorrere allo sconciglio giallo del ciclope. Incredibile a dirsi, non appena la conchiglia toccò l’acqua, lo squalo fece un’istantanea inversione di rotta a 90 gradi e andò a schiantarsi contro lo scoglio rosso, dopodiché “calossi gorgogliando e s’affondò”. Se non proprio esultante per essersi liberato di uno dei tanti pirati che affollano i nostri mari, almeno contento per lo scampato pericolo, il nostro piccolo eroe mosse la prua verso il suo posto segreto e, ivi giunto, pensò bene di consumare anche la conchiglia verde, quella del desiderio, il quale non poteva che essere quello di una pesca miracolosa. E infatti solo così poteva definirsi quello che riusciva a tirare a bordo: saraghi, occhiate, scorfani riempivano i secchi colmi d’acqua. Non faceva neanche in tempo a mollare le lenze che già sentiva toccare e fu proprio per un tocco ripetuto della lenza sulle dita della mano che Vincenzo si svegliò. Si era addormentato, come il pescatore della barcarola napoletana, mentre la barca se ne andava a scarroccio nel mare calmo e senza vento. D’istinto tirò la lenza e con essa un ragguardevole sarago di almeno tre chili: continuò poi a pescare e, se non proprio miracoloso come quello del sogno, fece un raccolto di tutto rispetto. La grotta, le stalattiti, il ciclope, tutto un sogno? Forse sì, se non fosse stato per quei tre scuncigli dalle tonalità rossa, gialla e verde che giacevano sul fondo della barca e che lui non si ricordava di avere pescato. Sogno o non sogno, da quel giorno ogni volta che passava il capo della Guardia, Vincenzino faceva un cenno di saluto con la mano e gli sembrava che la montagna diventasse più luminosa e la luce del faro più intensa: era certamente il ciclope che rispondeva al suo saluto.

Sensazioni di mare

Nivee bambagie incredibilmente statiche

scopre lo sguardo che va ad esplorare

di là dell’oblò;

maestosamente lenta scorre l’irrequieta

demarcazione tra terra e mare

e golfi e asperità e placide battigie

senza sosta si mettono in mostra.

Bianche geometrie, di natanti le scie

s’incrociano e s’interrompono

su ruvide isole che subitanee affiorano

per spezzare lo sfumato, indefinito azzurro.

A che serve cercare di vedere

che cosa c’è al di là dell’orizzonte?

Meglio godersi il trionfo di luce

del sole che l’aria, l’acqua ed il sale

coniuga e dissolve.

 

Sensazioni d’aria

Salgono i rumori del mondo

verso la mia finestra,

portati da svogliati gabbiani,

sospinti dal vento d’oriente

intriso di sale e di rena,

crudele e teso,

immemore degli spazi

di mare che ha attraversato,

delle vele che ha rovesciato,

degli alberi che ha squassato.

Il corpo mio greve

diventa più lieve

nel grembo del piccolo turbine

che interamente

mi avvolge e divento

sua parte integrante.

Ma poi lentamente

il flusso si placa

e placido riprende

il suo corso il tempo

ed il sangue anche

s’acquieta.

 

Venti di Ponza

Senti, s’insinua ed ulula il libeccio

nella Padula tra muri, orti e giardini:

piegasi l’agave, si scompiglia il leccio

e l’oleandro perde fiori e crini.

 

Dei nembi la minaccia già s’avverte

che a Chiaia di Luna occludon l’orizzonte:

ecco, un lampo l’immobile aura inerte

con livido baglior scuote dal monte.

 

Il maestrale rompe da ponente,

di candide colombe il mar si riempie,

 

le gonfie nubi spazza via lontano.

Nell’aria tersa un fremito si sente,

il cuor ti pulsa forte nelle tempie,

la salsedine bagna la tua mano.

 

FINE SECONDA PARTE

CONTINUA

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