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Un po' di Ponza a Torino nella tesina di Chiara Nisi - Ass. Cala Felci

Un po’ di Ponza a Torino nella tesina di Chiara Nisi

Isola di Ponza

di Chiara Nisi *

Classe 3 Scuola Media Antonelli di Torino  – Anno 2017-2018

  • Chiara di madre ponzese e padre mezzo ponzese e mezzo ventotenese, vive e studia a Torino, dove la sua famiglia si è trasferita per motivi di lavoro. Tutte le estati torrna dai nonni a Ponza, a cui è particolarmente legata.

 

 

Ponza è la maggiore delle Isole Ponziane (il cui arcipelago comprende anche le isole di Gavi, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano) ed è situata nel Golfo di Gaeta, nel Mar Tirreno. Appartiene alla provincia di Latina, nel Lazio. Ponza ha una superficie di 7,5 km² ed è quasi completamente montuosa. Il monte più elevato è il monte Guardia alto 280 m, posto all’estremità meridionale dell’isola. Le sue spiagge sono frastagliate e per lo più rocciose, composte da caolino e tufi, a dimostrazione (insieme con i numerosi crateri vulcanici spenti ma tutt’oggi riconoscibili) dell’origine vulcanica dell’isola. La presenza di grotte sottomarine e di scogliere richiamano ogni anno migliaia di appassionati subacquei, che prediligono la celebre spiaggia di Chiaia di Luna,circondata da un’alta scogliera a picco sul mare. Famosi sono anche la Scogliera e i Faraglioni di Lucia Rosa. La forma dell’isola è stretta e allungata, e si estende dal Faraglione La Guardia, a sud, alla Punta dell’Incenso, a nord-est, che dà sull’ Isola di Gavi; quest’ultima è separata da Ponza da un braccio di mare di appena 120 metri. La vegetazione è tipicamente mediterranea, con prevalenza di agavi, fichi d’India e ginestre. Ponza il cui nome deri­va dall’essere situata, come la più lontana delle isole campane, in pieno mare, fu dominio dei Volsci quando, nel 313, vi fu istituita una colonia di diritto latino. Sotto l’impero romano,Ponza divenne soggiorno della casa imperiale e luogo di esilio. Rimangono numerosi resti di edifici di età repubblicana e imperiale e una necropoli del 1°-2°sec.d.C. Nel Medioevo fu alle dipendenze della Chiesa e, verso la metà del 15° sec., degli Aragonesi, che nel 1478 ne cedettero il possesso ad alcuni nobili napoletani (Carafa, Petrucci, Arcamone). Da Ponza, prendono nome le Isole Ponziane. Le isole del primo gruppo rappresentano la parte emersa di un settore sollevato della piattaforma continentale e sono caratterizzate dalla presenza di prodotti vulcanici sottomarini; quelle del secondo gruppo costituiscono invece la sommità emersa dell’edificio vulcanico centrale di Ventotene e del cono avventizio di Santo Stefano.

Fauna e flora dell’isola di Ponza

La fauna

Nelle isole Ponziane rimangono abbastanza integre le specie poco visibili o invisibili, gli insetti; sono estinte tutte le specie selvatiche dei mammiferi terrestri, e i mammiferi marine. E’ estinta la foca monaca, mammifero marino che un tempo abitava in buon numero le grotte sommerse di cui le isole Ponziane sono ricche. Tra i rettili assenti le Vipere, è presente il Biacco: nel sottordine dei Sauri possiamo citare il Geco e la Tarantola; notevole diffusione è la Lucertola campestre, un po’ su tutte le Isole e persino sull’isolotto di Gavi e sullo Scoglio del Cappello di Palmarola. Estinte risultano le Tartarughe Marine, un tempo numerose. Sull’isola di Palmarola e in rari esemplari anche a Ponza si puo’ ammirare il falco pellegrino.

Verdesca:

Caratteristiche: Le sue dimensioni raggiungono circa 380cm, ma le specie che abitano il Mediterraneo si aggirano intorno ai 50 cm a 250 cm. Il suo corpo è snello, muso lungo e senza cresta interdorsale. I suoi occhi sono grandi le pinne pettorali lunghe e piuttosto sottili dagli apici incurvati. La prima pinna dorsale è piuttosto piccola e con apici curvi, posizionata ben dietro alle pinne pettorali col suo punto medio più vicino all’origine della pinna pelvica. La sua carenatura si presenta più bassa sul peduncolo caudale, il margine posteriore della pinna anale e’ profondamente infossato. La Verdesca presenta sporgenze branchiali papillose, unico caso tra i carcharhinidi. I suoi denti superiori sono notevolmente obliqui, curvati e triangolari, con marigini dentellati. Il colore del dorso è di un vivo blu cobalto, che sfuma in celeste metallico sui fianchi e in bianco sul ventre.

Tracina drago:

Caratteristiche. Il corpo è allungato, basso e compresso ai lati. La bocca è grande e obliqua. Sono presenti una piccola spina sul capo, davanti a ciascun occhio, e una spina velenosa su ogni opercolo. Le pinne dorsali sono due. La prima, più corta, ha di solito cinque o sei robuste spine velenose, la seconda è composta da raggi molli. La pinna ventrale è più lunga della seconda dorsale. Il dorso è giallo grigiastro, i fianchi hanno una caratteristica striatura diagonale e il ventre è più chiaro. Sulla prima pinna dorsale c’è una grossa macchia nera. Può raggiungere una lunghezza di quaranta centimetri. Vere e proprie ghiandole velenifere sono presenti alla base dei raggi della prima pinna dorsale e della robusta spina che c’è sull’opercolo. Il veleno non è mortale, ma, se l’esemplare è di grandi dimensioni, può essere ugualmente molto pericoloso, perché arriva a stordire un uomo. E se quest’uomo è sott’acqua, come potrebbe essere appunto il caso di un subacqueo, le conseguenze della puntura potrebbero essere catastrofiche. Se la ferita è ben curata, non dovrebbero sussistere preoccupazioni di alcun genere, mentre potrebbero verificarsi danni permanenti, come paralisi locali, nel caso sopravvenisse un’infezione della parte malata; un’eventualità, purtroppo, da non trascurare. La cura migliore è comunque quella di immergere la ferita nell’acqua più calda che sì può sopportare, perché il calore distrugge il veleno dei trachinidi. La riproduzione avviene nella tarda primavera e in estate e le uova fluttuano insieme con il plancton.

Totano:

Caratteristiche: Il corpo è sacciforme, allungato. Ai lati dei corpo, nella seconda metà troviamo due pinne triangolari che si uniscono posteriormente a formare una specie di punta. Il nuoto avviene o mediante queste pinne o con l’espulsione di un getto d’acqua attraverso un tubo ventrale, detto sifone. La bocca, dotata di due mascelle cornee simili al becco di un pappagallo, è circondata da 10 tentacoli, che si suddividono in due braccia tentacolari e in 8 tentacoli più corti. Questi ultimi sono provvisti di due serie di ventose peduncolate. Le due braccia tentacolari non sono retrattili, sono clavate e provviste di quattro file di ventose: la loro lunghezza è circa il doppio di quella dei tentacoli. Raggiunge generalmente una lunghezza di 30/40 centimetri, ma, in alcuni casi, può toccare addirittura il metro e i 15 chili di peso. Il corpo è trasparente, con una colorazione, leggermente violacea. Si nutre di pesci, crostacei e molluschi, che cattura utilizzando i tentacoli e divora e frantuma, nel caso dei Lamellibranchi, con il grosso becco corneo. La riproduzione avviene mediante uova che vengono deposte sul fondo.

Tonno:

Caratteristiche: Il tonno si presenta con il corpo fusiforme, più allungato nei giovani e più grosso negli adulti. Il peduncolo caudale e’ molto sottile e i fianchi si presentano con una corporatura piuttosto sviluppata. Il suo corpo e’ ricoperto di piccole scaglie nella parte posteriore e più grandi in quella anteriore. L’occhio in proporzione al suo corpo e’ relativamente piccolo. La bocca e’ munita di denti conici e appuntiti, gli altri denti sono presenti anche sul vomere e sui palatini. La sua pinna dorsale e’ di forma triangolare; la pinna dorsale secondaria e’ contigua alla prima ed e’ poco estesa quella anale è pressoché uguale e opposta alla pinna dorsale secondaria; le pinne pettorali e le ventrali sono piuttosto piccole e sono alloggiate in particolari tasche; la pinna caudale e’ ampia, a una tipica forma di luna, a lobi molto appuntiti e rappresenta per il Tonno un potentissimo organo propulsore. Nella parte posteriormente, e sul profilo superiore e inferiore, l’animale e’ provvisto di 8-9 pinnule. Il colore del dorso e’ azzurro metallico o blu scuro; i fianchi ed il ventre sono bianco argentato. Il suo peso può anche raggiungere i 730 kg. Alla sua base alimentare ci sono branchi di pesci, molluschi e crostacei. Risulta essere un predatore insaziabile. La sua carne è molto prelibata.

Tombarello:

Caratteristiche: Corpo fusiforme con sezione pressoché rotonda, scaglie visibili e presenti sul corsaletto toracico. Testa conica, muso appuntito, bocca terminale obliqua verso l’alto, finemente dentata con la mascella inferiore prominente, occhi medi, opercolo molto grande. Le pinne dorsali sono due, nettamente separate tra loro. La prima è triangolare più alta e falciforme, la seconda è analoga all’anale un poco più avanzata. Entrambe sono seguite da una serie di pinnule fino alla coda bilobata omocerca e falcata. Il penducolo codale è assai sottile ed è carenato lateralmente. Il colore è di un bel azzurro scuro con riflessi metallici sul dorso e con fasce nere contorte nella parte posteriore. I fianchi sono più chiari ed il ventre è argenteo. Forte nuotatore oltreché vorace predatore, si sposta continuamente in branchi numerosi, specie in età giovanile, alla ricerca di cibo, costituito in prevalenza da novellame di sardine, acciughe e boghe, che a volte insegue fin vicino alla costa. Può superare abbondantemente i cinquanta centimetri di lunghezza e i due chilogrammi di peso, ma la taglia media va dai tre etti al mezzo chilo, a seconda del periodo di cattura. La carne del tombarello è rossa, piuttosto sanguigna, adatta ad essere conservata sott’olio oppure cucinata fresca, in umido o alla griglia. Un buon accorgimento è quello di tagliare il tombarello a fette, se la dimensione lo consente, oppure sfillettarlo e tenendolo immerso in acqua dolce per toglierne il sangue. Il tombarello si riproduce in estate, tra i mesi da giugno a settembre. E’ quindi possibile la sua cattura in questi periodi e in autunno (ottobre e novembre). La sua presenza in uno stesso posto è per lo più saltuaria a causa del continuo girovagare che lo porta ad allontanarsi per poi tornare di nuovo.

Sugarello:

Caratteristiche. Il Sugarello presenta un corpo lungo e slanciato è di colore grigio o verde-bluastro sul dorso, argenteo sul ventre può raggiungere una lunghezza di circa 40cm. È un pesce gregario e vive in folti branchi che si spostano alla ricerca di cibo e si avvicina alla costa dalla primavera all’autunno per la riproduzione. Aggredisce con voracità le esche, sia ferme che in movimento ed è una delle prede più comuni nel bolentino costiero e nella traina effettuata sottocosta. La sua carne è buonissima, si presenta molto gustoso alla griglia, al forno o lesso, gli esemplari più piccoli sono ideali al cartoccio.

Squalo volpe:

Caratteristiche: Lo squalo volpe si riconosce facilmente per il lobo superiore della coda incurvato a forma di falce e di solito raggiunge una lunghezza pari al resto del corpo. Mentre le pinne ventrali sono lunghe e incurvate anch’esse a falce, la prima dorsale si presenta corta e arrotondata. Infine, la seconda dorsale e la prima pinna anale sono minuscole. Presenta un muso corto e conico con bocca relativamente piccola dotata di denti appuntiti. Il dorso è generalmente nero-verdastro, mentre il ventre e la base dei fianchi sono bianchi. La pelle si presenta meno ruvida di quella degli altri squali. Gli squali volpe sono ovovivipari e i piccoli misurano alla nascita già circa 1,5 metri. Presenta carattere solitario ed accetta di condividere la compagnia di un suo simile solo in caso di attacco ad un branco di pesce abbondante. Il volpe usa la sua lunga coda per tramortire le prede e poi ingerirle con calma. Infatti capita spesso che il pesce venga allamato di coda proprio per questa sua caratteristica. Lo squalo volpe raggiunge dimensioni di tutto rispetto, raggiungendo nel mediterraneo il peso di oltre 200 Kg.

Spigola:

Caratteristiche. La Spigola è un magnifico pesce, ha il corpo allungato , elegante, un poco compresso lateralmente che a pieno sviluppo può arrivare fino al metro di lunghezza e ai 10-14 chilogrammi di peso. La testa è robusta, con la mandibola prominente sulla mascella. La bocca è ampia, un poco obliqua e armata di aguzzi denticelli che formano una specie di velo all’interno di questa. L’opercolo è munito posteriormente di due spine aguzze e il preopercolo è seghettato sul bordo posteriore. Il dorso reca due pinne contigue e di pari altezza, delle quali la prima e sorretta da raggi spinosi e la seconda da raggi molli. La caudale è concava posteriormente, l’anale è situata ventralmente alla dorsale molle, le ventrali sono subtoraciche e infine le pettorali sono piuttosto corte. La colorazione è mimetica.

La flora

Le regioni lambite dal Mediterraneo, per un insieme di fattori climatici e geografici favorevolissimi, godono di temperature particolarmente più miti di quelle delle altre regioni continentali del centro Europa, e ciò per l’azione regolatrice della temperatura esercitata dalle notevoli distese marine.

La posidonia:

Ben conosciuto e’ il fenomeno dell’eutrofizzazione, dovuto a un’alga tristemente nota col nome di alga rossa, che quasi beffandosi delle leggi biologiche, sembra trovare prezioso alimento negli scarichi industriali e in altre sostanze inquinanti.

Il lauro canfora:

E’ un bell’arbusto di notevole sviluppo dalle foglie oblunghe, lanceolate, verdi lucenti, glauche al rovescio, che, frantumate, emanano un gradevole profumo che ricorda quello della canfora.

Il lauro :

E’ un arbusto dalle foglie piuttosto larghe e grandi, colore verde lucente, dai fiori bianchi in primavera; sopporta bene il taglio e pertanto si impiega utilmente per la formazione di siepi pur essendo pianta di notevole effetto ornamentale anche se usata isolatamente. Anche per questa specie si hanno alcune varieta’ a foglie grandi ed a foglie piccole.

L’alloro :

E’ la pianta classica, tramandataci dai Greci e dai Romani quale simbolo di sapienza e di gloria: tuttora e’ in auge in tal senso, come nei tempi antichi, e si intessono con le sue foglie corone in cerimonie sacre e civili.

L’agrifoglio:

E’ un arbusto dalle foglie coriacee, spinose ai margini, di colore verde scuro vivace e lucido; si adatta bene al clima marino, nonostante sia generalmente pianta da alta collina nonche’ ai terreni secchi, producendo in inverno bacche rosse molto decorative, e ricercate per la guarnizione degli alberi natalizi, le quali persistono fino a primavera.

La celatonia siliqua :

E’ il volgare carrubo, questo albero sempreverde, che in particolari casi puo’ raggiungere un grande sviluppo, ma che si adatta, per la sua particolare frugalita’, a vivere anche nelle condizioni piu’ ingrate, quale le fenditure delle rocce.

Il bambu’ :

Il bambu’ e’ una canna rizomatosa, originaria del Giappone, ed abitualmente prospera nei luoghi umidi: serve a consolidare terreni franosi e resiste abbastanza al gelo e alla siccita’, adattandosi a qualsiasi terreno; a Ponza ne esistono esemplari nella varieta’ “aurea” e “nigra”, entrambe molto ornamentali.

Il corbezzolo:

Arbutus unedo, si chiama anche Corbezzolo o Albatro ed e’ un arbusto sempre verde, a foglie lucentissime, con fiori bianchi ai quali subentrano frutti commestibili detti volgarmente “ciliegie marine”, che si presentano come grappoli di bacche rosso giallastro grosse quanto una ciliegia; scabre, granulose, di sapore gradevole leggermente acidule, le quali maturano nel tardo autunno.

Origine vulcanica di Ponza

L’intero arcipelago ponziano è di origine vulcanica, ma le diverse isole si sono sviluppate in contesti geologici diversi ed hanno anche età geologiche diverse. Le tre isole settentrionali di Ponza, Zannone e Palmarola,risalgono alla fine del Pliocene, essendosi formate all’incirca 2,5 milioni di anni fa, e sono state  costruite da eruzioni sottomarine di magmi acidi,mentre le isole di Ventotene e Santo Stefano sono più recenti e dovuti ad eruzioni di magmi meno ricchi di acidi e perciò meno viscosi. Per i geologi, le isole settentrionali di Ponza, Palmarola e Zannone rappresentano un’ottima palestra di studio perché costituiscono un raro esempio di vulcanismo acido sottomarino. Esse sono state studiate dai geologi di tutto il mondo e le contese scientifiche sulla dinamica della loro evoluzione si sono protratte fino ai nostri giorni. I lavori più recenti dimostrano che le tre isole sono quel che resta di un complesso di cupole di magmi acidi, detti domi, estrusi in ambiente subacqueo lungo fratture orientate ,che a loro volta facevano parte del sistema di faglie e fratture che nel Pliocene hanno controllato l’evoluzione del margine costiero del Lazio in relazione all’apertura del bacino tirrenico. I magmi acidi sono molto viscosi e quindi una volta estrusi tendono a non scorrere; si accumulano invece vicino al punto di emissione costruendo delle vere e proprie cupole. Questo complesso processo in ambiente subacqueo è ulteriormente complicato dal brusco raffreddamento che il magma subisce a contatto con l’acqua del mare. Nelle isole di Ponza, Palmarola e Zannone è possibile analizzare le varie fasi di costruzione di un domo sott’acqua che sono poi visibili negli affioramenti esposti lungo le falesie delle isole. La roccia bianca che costituisce la maggior parte delle falesie delle isole è ialoclastite, cioè vetro vulcanico, nient’altro che il magma bruscamente raffreddato e altamente frammentato a contatto con l’acqua.

Questione meridione dopo l’unita d’Italia

Di questione meridionale si cominciò a parlare quasi subito dopo il 1861 in relazione al brigantaggio e ai problemi politici e sociali che esso poneva. All’atto dell’unificazione era generale la convinzione che tra l’area padana e l’area meridionale le differenze di tipi e di livelli di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. A queste convinzioni di fondo fu ispirata la politica dell’Italia unita verso il Sud. Il sistema fiscale, il regime di liberalismo completo negli scambi, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelli del Piemonte sabaudo. La pressione fiscale si scaricò così su un’economia che non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po’ di sviluppo manifatturiero che aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borbone. Dopo due o tre decenni di vita unitaria si cominciò, pertanto, a parlare di una questione meridionale in termini nuovi e prese l’avvio il meridionalismo, ossia una riflessione organica sui problemi che si ponevano nell’Italia unita per il forte dislivello fra le due sezioni del paese.

Contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano all’Unità i mali del Mezzogiorno, G. Fortunato affermò con fermezza che, se non si fosse legato allo Stato nazionale italiano, il Mezzogiorno non avrebbe potuto essere sottratto a un destino africano o balcanico. Intanto, però, avevano luogo grandi trasformazioni: le varie province si scioglievano dall’antica soggezione e dipendenza verso Napoli e, in Sicilia, verso Palermo; un progresso agrario importante si verificava in alcune zone (pianure campane e pugliesi, conca di Palermo, piana di Catania); la commercializzazione dei prodotti agrari si faceva sensibile; si sviluppava una serie di centri urbani; veniva creata una rete ferroviaria, sia pure volta più a collegare il Sud con il Nord; migliorava il livello dell’istruzione e della vita pubblica.

Alla fine degli anni 1880 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia – maggiore cliente del Mezzogiorno agrario di allora – inflissero un duro colpo all’agricoltura meridionale. In quegli anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno produsse un movimento emigratorio torrenziale. Dinanzi a queste contraddizioni e a questi problemi alla fine del 19° sec. maturò la riflessione di F.S. Nitti, secondo il quale lo sviluppo settentrionale e il sottosviluppo meridionale dopo l’Unità sarebbero stati determinati fondamentalmente dal forte drenaggio dei capitali meridionali attraverso il fisco e il credito e dall’indirizzo della politica doganale, prima liberistico e poi protezionistico nei settori più gravosi (siderurgia, zucchero, grano ecc.). Nitti proponeva perciò una politica di intervento statale e una politica sociale in grado di avviare una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno, avvalendosi dell’energia idroelettrica di cui l’Italia poteva essere una buona produttrice.

Nello stesso tempo la corrente degli economisti favorevoli al libero scambio (L. Einaudi, G. Carano Donvito, A. De Viti De Marco) sviluppava il tema antiprotezionistico, anch’esso una tesi classica del meridionalismo. Il socialismo italiano aveva dedicato poca attenzione al problema: G. Salvemini assunse perciò una posizione assai originale quando individuò nella grande borghesia agraria che si avvantaggiava del dazio sul grano e nella piccola borghesia urbana le zone da combattere nella società m., prospettando un’alleanza di classe fra contadini del Sud e operai del Nord e il suffragio universale come elementi decisivi. Il quindicennio giolittiano fu un periodo di relativo sviluppo delle regioni del Sud e vide l’applicazione della prima legislazione speciale a favore del Mezzogiorno.

  1. Dal fascismo alla Cassa per il Mezzogiorno

Dopo la Prima guerra mondiale la riflessione meridionalistica si avviò decisamente sul piano politico. L. Sturzo perorò la causa delle autonomie regionali come il mezzo più idoneo a liberare le energie e a proteggere gli interessi del Sud. A sua volta A. Gramsci individuò nella questione m. la massima contraddizione storica e sociale del paese. Egli sviluppò le indicazioni salveminiane da un punto di vista leninista, come schema di un’alleanza di classe analoga a quella che in Russia aveva reso possibili la rivoluzione e la vittoria dei soviet degli operai e dei contadini. Così, rivoluzione italiana e abbattimento del blocco di potere formato dagli agrari del Sud e dagli industriali del Nord facevano tutt’uno. G. Dorso vedeva in un rinnovamento della classe dirigente, nella formazione di una élite direttiva e nell’avvio, sulle basi di una forte autonomia m. e regionale, a un tipo di sviluppo da società occidentale avanzata l’obiettivo più auspicabile. Erano posizioni destinate a essere travolte dalla marea montante del fascismo, che dichiarò chiusa la questione m. e vide nell’espansione coloniale e nell’intensificazione della produzione agraria la soluzione del problema.

Nel dopoguerra le forze politiche si dimostrarono assai sensibili alla questione. I comunisti ripresero e riarticolarono le tesi di Gramsci. I socialisti portarono il contributo della riflessione di R. Morandi, in particolare, alla questione dell’industrializzazione. Allo stesso problema si dedicò P. Saraceno nel campo cattolico. Nel campo laico si ripresero con particolare vivacità le tesi di Nitti e di Dorso; M. Rossi Doria elaborò il tema dello sviluppo agricolo e di una riforma agraria, mentre altri richiesero una considerazione prioritaria dell’industrializzazione e del problema della città.

Sotto la sollecitazione anche dei movimenti di massa si giunse tra il 1949 e il 1950 alla definizione di una serie di linee operative, fra cui una parziale riforma agraria e l’istituzione di una Cassa per il Mezzogiorno, partita in un primo tempo dal presupposto che per avviare lo sviluppo del Sud fosse sufficiente dotarlo delle grandi infrastrutture di cui esso mancava; in un secondo tempo si ritenne necessario un intervento diretto e si arrivò a promuovere e a realizzare alcuni grandi impianti industriali. I risultati dell’azione della Cassa e di tutta la politica speciale successiva non furono quelli sperati, pur essendo innegabile un processo di sviluppo che, specialmente negli anni 1960, trasformò il quadro stesso dell’ambiente meridionale. Negli anni 1950, inoltre, riprese la grande emigrazione interrottasi alla fine degli anni 1920, diretta questa volta verso l’Europa occidentale e l’Italia settentrionale. Tuttavia si poteva osservare in tutte le regioni meridionali un netto mutamento delle condizioni e del livello di vita.

All’inizio degli stessi anni 1960 si manifestò sempre più chiara la richiesta, non raccolta, di un superamento e di un’integrazione della politica speciale per il Mezzogiorno in una politica nazionale di programmazione e di sviluppo dell’intero sistema nazionale. Il meridionalismo perse molto della sua carica politica e assunse una fisionomia tecnica quasi da disciplina accademica.

  1. Il mancato superamento della questione

Il criterio di una ‘politica speciale’ rimase quello dominante nell’azione per il Mezzogiorno. L’attenzione si spostò sempre più massicciamente sull’industria e sui servizi. Né si tenne conto dell’arresto ormai completo dell’emigrazione che di nuovo congestionava fortemente il mercato del lavoro, già trasformato dall’unificazione salariale del paese. Gli obiettivi settoriali, territoriali e sociali dello sviluppo divennero l’oggetto della ricerca di un equilibrato dosaggio fra interventi diretti e indiretti dello Stato, tra finanziamenti e agevolazioni o incentivi, tra assistenza e promozione. Nel giro di una ventina di anni il Mezzogiorno prese l’aspetto di una periferia di grande area sviluppata. Dall’altro lato, però, la distanza strutturale, reddituale, sociale, funzionale rispetto alla sezione più avanzata del paese tendeva a crescere. Né si poteva tracciare un bilancio positivo dell’autonomia regionale, toccata nel 1947 alla Sicilia e dal 1970 alle altre regioni.

A metà degli anni 1980 molti parlarono di un ormai avvenuto superamento della questione m., ma in realtà un tale bilancio era impossibile. Specialmente dopo il terremoto campano e lucano del 1980 la politica speciale prese la via di una serie di ‘grandi opere’ e di incentivazioni e agevolazioni, che finì con il cadere sotto il controllo di gruppi politici. Clientelismo, corruzione e oligarchismo notabilare si saldarono frequentemente in un nesso deteriore più forte di quanto fosse mai accaduto in precedenza. Per di più, con la diffusione del traffico della droga e gli enormi guadagni connessi, la vecchia patologia criminale mafiosa, che solo in Sicilia con la mafia sembrava avere preoccupanti dimensioni, esplose anche nelle altre regioni. La collusione tra i ceti politico-amministrativi e professionistici e i gruppi della criminalità organizzata prese dimensioni superiori a ogni precedente.

Nel mondo agrario, alla crescente fioritura di alcune produzioni in determinate zone corrispondeva un abbandono generale delle campagne che assumeva tutti i caratteri di una vera e propria destrutturazione economica e sociale, a malapena compensata da una politica di assistenza e di pensioni sociali e da un’artificiosa diffusione di occupazione, soprattutto pubblica, scarsamente produttiva o parassitaria. Nel 1986 la Cassa per il Mezzogiorno fu sostituita da un’Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno, concepita secondo linee più snelle ma i cui risultati non furono sostanzialmente migliori e alla fine fu anch’essa soppressa, con il passaggio delle competenze meridionalistiche al ministro del Bilancio.

La profonda crisi politica che investì l’Italia agli inizi degli anni 1990 trovò il Mezzogiorno, il meridionalismo e la politica meridionalistica in una condizione simultanea di trasformazione e di travaglio che continuava a mantenere le regioni m. in uno stato generale di ‘inferiorità’ analogo, benché mutato nei termini, a quello in considerazione del quale era stata sollevata un secolo prima la questione meridionale. Anzi, la grande diffusione al Nord di tendenze revisionistiche dell’unità nazionale determinava una comprensione assai inferiore o, addirittura, una ripulsa delle esigenze del Mezzogiorno, visto come scaturigine ed emblema dei ‘mali’in cui era precipitato il sistema  politico italiano.

  1. La problematica attuale

Nel 21° sec., era della globalizzazione, dei mercati interdipendenti, dell’economia della conoscenza, l’ottica necessariamente si allarga e nello stesso tempo si fa più selettiva. Da una parte, i mercati di riferimento non sono più quelli locali o nazionali, ma il mercato europeo e la sua apertura verso l’Est e verso il Mediterraneo. Dall’altra, le logiche dello sviluppo possibile sono sempre più strettamente intrecciate al territorio, alla valorizzazione delle energie endogene, alla nascita e alla crescita dei distretti, alla messa in rete – reti imprenditoriali e istituzionali, reti di fiducia – delle iniziative. Si fa strada un meridionalismo nuovo, pragmatico, meno dirigista e più attento alle peculiarità positive che il Sud può esprimere, alle potenzialità che, fra luci e ombre, la società civile meridionale manifesta. Si rifiuta l’idea che il Mezzogiorno abbia bisogno di politiche ‘speciali’. Si sostiene invece che servono modulazioni territoriali, non solo per il Sud, di una coerente politica nazionale, in un’Italia che fa parte, per la scelta europea, di un insieme più vasto, con vincoli e con opportunità, e che, per la sua posizione geografica, è un ponte naturale fra l’Europa e il Mediterraneo.

La spigolatrice di Sapri

1  Eran trecento,   

eran giovani e forti,
e sono morti!

Me ne andavo un mattino a spigolare
5  quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
10   s’è ritornata ed è venuta a terra

sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.
                                                                                                                                                                                                                                                                                   Eran trecento

 eran giovani e forti

     e sono morti!

15  Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra.
Ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti aveano una lacrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane:
20    ma non portaron via nemmeno un pane;
se li sentii mandare un solo grido:
“Siam venuti a morir pel nostro lido”.
 Eran trecento

eran giovani e forti

25 e sono morti!

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?”

30   Guardommi, e mi rispose: “O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella”.
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: “V’aiuti ‘l Signore!”
Eran trecento

35  eran giovani e forti

e sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrâr con li gendarmi,
40   e l’una e l’altra li spogliâr dell’armi:
ma quando fûr della Certosa ai muri,
s’udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra ’l fumo e gli spari e le scintille

piombaron loro addosso più di mille.
45 Eran trecento

eran giovani e forti

e sono morti!
Eran trecento e non voller fuggire,
parean tre mila e vollero morire;
50   ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano:
fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma a un tratto venni men, né più guardai:
io non vedea più fra mezzo a loro
55  quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.

Eran trecento

  eran giovani e forti

  e sono morti!

                                                                                             Luigi Mercantini 1857

 spigolare: raccogliere le spighe di grano rimaste sul campo, dopo la mietitura.

Carlo Pisacane e i suoi sbarcano a Ponza il 27 giugno 1857 per poi raggiungere Sapri e suscitare un’insurrezione popolare, poi fallita e conclusa con la cattura e la morte dei patrioti. Delicata e insieme popolaresca, opera di uno tra i più noti rappresentanti della lirica patriottica risorgimentale, questa ballata, di atmosfera tardoromantica, rivela l’ispirazione più sincera e spontanea di Luigi Mercantini. La vicenda è quella, tragica, della spedizione di Carlo Pisacane e dei suoi compagni che, illudendosi di suscitare una rivolta popolare come tre anni dopo riuscirà invece a Garibaldi vanno incontro a una catastrofe dovuta, più che alle soldatesche borboniche, all’ignoranza feroce delle masse contadine; ferito e sconfitto, Pisacane si toglierà la vita. Le cinque strofe di quattro distici di endecasillabi in rima baciata sono introdotte e concluse da un ritornello universalmente noto, composto da un endecasillabo e un quinario anch’essi a rima baciata, che ne sottolineano la cadenza epica e funebre.

Le cupole

Le case di Ponza sono costruite con la pietra del luogo,ovvero il tufo,che consente di avere case che mantengono il calore d’inverno e la frescura d’estate. La casa tipica è costituita dall’insieme di una o più casette dette “cupole”perché realizzate con il tetto a forma di cupola. Le “cupole”sono collegate da porte interne o da eventuali scale,se poste su dislivelli. Esse sono molto semplici da realizzare,perché,funzionano con il principio dell’arco,ovvero,dopo aver costruito i portanti del perimetro, si costruisce un tavolato curvo che darà la forma futura del tetto,e una volta poste tutte le pietre del tetto,si rimuove la sottostante centinatura e la struttura del tetto è pronta per essere intonacata e tinteggiata. Le casette vengono poi dipinte con tipici colori vivi,che permettono ai pescatori al largo,di avvistare la propria casa anche a distanza.

 

“Lo Stracquo”, l’arte che viene dal mare

Sono circa cinquanta le opere esposte dai venti artisti partecipanti a questa inconsueta collettiva, incentrata sulla ricerca e il riuso dei materiali che il mare porta a riva durante le mareggiate.

L’esposizione ricalca in gran parte quella organizzata con grande successo l’anno scorso a Ponza dall’Associazione Cala Felci. Attraverso questa iniziativa si vuole diffondere un messaggio d’amore verso la vita e l’ambiente rappresentando, con le opere dei vari artisti, la morte portata dall’inquinamento e allo stesso tempo la rinascita attraverso il riciclo del materiale recuperato sulle spiagge elevato a opera d’arte.

 

la banda

Nel Marzo del 1991 interpretando l’esigenza popolare e culturale, venne avviato a Ponza il processo di ricostruzione della Banda Musicale che grazie all’entusiasmo di tutti e allo sforzo di molti, portò alla formazione dell’attuale Ass. Musicale “Isola di Ponza”. Fin da allora lo scopo dell’associazione é sempre stato quello di promuovere e diffondere la cultura musicale, creando un gruppo di persone che gustassero la musica dal vivo come protagonisti, con tutte le suggestioni ed emozioni che questo coinvolgimento determina. La direzione venne affidata all’abile maestro Antonio Cafolla, il quale, in breve tempo, creò un banda di oltre sessanta elementi. Da allora la banda si esibisce in numerosi concerti, manifestazioni e festività religiose allietando la popolazione isolana. Nel 1995 l’associazione organizza il suo primo gemellaggio con Saint Jean de Moirans (Grenoble) dove é stata anche accolta dal console italiano che opera in Francia. Successivamente, nel 1997, la banda incide una musicassetta, contenente alcuni brani del repertorio musicale italiano e isolano. Nel 2002 l’associazione partecipa a un gemellaggio organizzato dalla banda di Panza (frazione di Ischia) in occasione del centenario della sua fondazione. Nel 2011 l’associazione torna a condividere la propria cultura musicale con la banda di Collepardo, un grazioso paesino in provincia di Frosinone. Dal 2009 al 2012 la banda intraprende una collaborazione musicale con la banda della vicina isola di Ventotene. Per la prima volta nel maggio del 2014 partecipa alla bacchetta d’oro, nella categoria qualificazione, dando la possibilità ai ragazzi di mettere in mostra le loro qualità.

 Antonio Cafolla

Si diploma brillantemente in clarinetto presso il Conservatorio “Licino Refice” di Frosinone, sotto la guida del maestro Francesco Belli. Ha suonato in diverse formazioni da camera: Trii, Quartetti, Quintetti. Ha collaborato con diversi direttori d’orchestra: Daniele Paris, Cesare Croci, Francesco Belli e Fidel Baldin. Si occupa da anni di musica popolare avendo frequentato il corso di Etnomusicologia con il maestro Sandro Biagioca. È autore di due CD dal titolo “Le melodie del Mare” trasmesse dalla Rai come colonna sonora di diversi documentari. Dal 1991 è responsabile della Scuola Comunale “Isola di Ponza” nella quale insegna ed è direttore del gruppo strumentale.

 

Giuseppe Tagliamonte,de Ponza,était surnommé “O’Francese”parce

qu ‘il avait émigré en  France en 1927 et il avait séjourné ici pendant 32 ans. Il racontra à cette époque une fille née à Marseille du père Procidiano et de la mère Ponzese. Ils se sont mariés et n’avaient pas des enfants. En 1958/1959 il décidant de retourner à Ponza où il avait des maisons et des jardins laissés par les parents du O’Francese. Lui,cependant,était amoureux de Palmarola,la dernière ile de le Pontine,inhabitée et dans son était naturel,avec des garriguesv méditerranéennes,des lapins sauvages …

En 1958,le “O’Francese” a pensé à costruire une maison sur une propriété de son père sur la plage de Palmarola, qui a tout transformé en petit resturant.

Comme ce n’était pas partique pour le resturation,du “O’Francese” les personnes pouvait seulement manger:spaghetti à la sauce tomate,omelette et salade de roquette et “purchiacchielli”(des herbes sauvages).

Depius lors le “O’Francese” st resté le restaurant le plus fascinant de l’0ile et chaque touriste le visite au moins une fois

he importance of the english language in Ponza

“Ponza is still a dream and the water is crystal clear. It’s a real village where life goes on all year round. Its shops, narrow streets and bright colours make it a lively place even in the winter.

The island of Ponza is within easy reach of Rome, and the ferries are always on time!

In other words, it’s a really human island with nothing artificial about it.

This is one of the reasons it’s a pleasure to go there.

Ponza is the largest of the Pontine Islands, an attractive archipelago off the Italian coast between Rome and Naples.

The main attraction is its landscape, shoreline and atmosphere.

Ponza’s most popular beach is Chiaia di Luna, a long crescent of sand under the high cliffs, accessible by foot from the port. Towards the other end of the island, near Le Forna, are the Piscine Naturali, lovely natural pools ideal for bathing and enjoying the sunshine.

The students can do some research on the lovely island.
They can find a map from Internet to mark the above mentioned areas.
They can create a tourist guide, including photos, giving the names of hotels, restaurants, places to visit.

A Ponza, la Guardia e la Scarrupata

Il faraglione della Guardia è la punta estrema dell’Isola di Ponza. È un ‘alta guglia di basalto che si erge imponente sul mare. Vi fu installato un potente faro e, per raggiungerlo, fu costruito un tortuoso sentiero che da lontano pare una piccola muraglia cinese. A piedi è una meta piuttosto facile, partendo dal capoluogo.

Ponza

Difficoltà: bassa. Durata: 1 ora e 20 minuti. Lunghezza: 2,1 km (solo andata). Dislivello: 110 metri in salita. Segnavia: inesistente. Partenza e armo: Ponza. Si raggiunge da Formia, Anzio, Terracina con aliscafo o ferry-boat. 

Dove dormire e mangiare: Ponza dispone di un ampia varietà di ristoranti, alberghi e B&B. La trattorìa Monte Guardia si trova sul percorso in Salita Scotti, 0771.80247. Contatti utili: Associazione proloco, via Molo Musco, 0771.80031, www.prolocodiponza.it. appena sopra l’approdo dei traghetti. Si seguono, dapprima, le indicazioni per la trattoria Monte Guardia, salendo gradini, sottopassando androni, sfilando vicino alle bianche casette del capoluogo isolano. Dietro le spalle, girandosi, si gode una splendida veduta del porto e della costa orientale dell’isola fino alla Punta dell’Incenso.

Lasciata sulla sinistra la trattoria s’imbocca in salita la stradina che conduce al monte Guardia. Fra le case della località gli Scotti appaiono rigogliosi i giardini e gli orti con le piante da frutto.

B.Attenzione. A un certo punto, senza nessuna segnalazione, a quota 96 metri circa, occorre abbandonare la strada e prendere a sinistra un viottolo tra i muri bassi, che superate le ultime case s’affaccia sul mare: una deviazione verso sinistra scende al Bagno Vecchio. Dal mare spuntano i faraglioni del Calzone muto (prende il nome da una superficie di roccia scura assimilabile a un pantalone). E un cartello indica la direzione del faro.

  1. Poco più avanti ancora una diramazione, brevissima, permette di salire alla linda chiesuola della Madonna della Civita. Il sentiero ora procede sul bordo di un terrazzino, fra i coltivi. Grosse agavi e fichi d’india spuntano dalla bassa vegetazione; poi inizia la macchia che sembra soffocare il viottolo Il Calzone Muto
  2. Con qualche cautela per non porre i piedi in fallo, si giunge a un cancellino (da richiudere). Finalmente appare, in lontananza, la punta del faro. Per arrivarci occorre, a questo punto, scendere attraverso la Scarrupata, così detta per il caotico ammasso di rocce che scende fino al mare. Man mano che si procede, il sentiero s’allarga e lascia intravedere la sua vecchia struttura, larga e accuratamente selciata. Si arriva a pochi metri dal mare, presso una caletta.

La Berta minore

  1. Uno stretto istmo di roccia unisce il basaltico faraglione della Guardia dall’isola madre. Qui occorre fermarsi: un cancello sbarra l’accesso al faro lungo uno spettacolare percorso pensile. La luce del faro della marina militare è visibile da oltre vena miglia.

L’isola è frequentata, inoltre, dalle berte che arrivano in migrazione: i ponzesi le chiamano uccelli parlanti, per le loro grida quasi umane. Sono berte maggiori, che si riproducono in una trentina di coppie nell’arcipelago delle Pontine; e berte minori (un esemplare nel disegno), che sono semplicemente di passo. Si ritorna a Ponza per la stessa via.

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Il Sentiero dei Papi nei Monti Ernici è un itinerario escursionistico affrontabile a piedi durante un fine settimana. Il punto di partenza è a Piglio, località situata a 40 km da Frosinone e a 62 da Roma. Il punto d’arrivo è ad Anagni, cittadina della Valle del Sacco, situata a 22 km da Frosinone e a 65 da Roma. Lo sviluppo complessivo del sentiero è di 36.8 km; il dislivello è di 1080 metri. Dalle pendici del Monte Scalambra, sopra Piglio, il sentiero si eleva verso il Monte Pila Rocca e raggiunta una quota di circa 850 metri attraversa, in località Cesa Rotonda, i pascoli più alti del comune di Acuto. Divallato presso il Colle delle Monache, si discende la Valle del Pozzo e si raggiunge Fiuggi Città. Superata la zona termale, il percorso si avvicina al Monte Porciano arrampicandosi sul suo versante settentrionale. Guadagnata la sommità nei pressi dell’antica rocca, si accede al villaggio di Porciano e quindi, con una lunga discesa sulla costa della montagna si avvicina Anagni. Prima di entrare in città si affronta ancora la leggera insellatura del Monte San Giorgio. L’altimetria tocca il vertice più alto a 940 metri, appena sopra Piglio. I tratti in ascesa non sono mai troppo faticosi, salvo la salita del Monte Porciano, lungo un sentiero piuttosto impervio che richiede circa un’ora di cammino. Publia  Cruciani – Statua di San Silverio in materiale di stracquo

S.Silverio

 

IL PONTIFICATO DI SAN SILVERIO

L’8 Giugno del 536 Silverio venne eletto Papa ed il 20 giugno dello stesso anno fu proclamato vescovo di Roma. Il pontificato di Papa Silverio, purtroppo fu breve, tormentato e impoverito da calunnie. L’ascesa del dominio Bizantino in europa, interessò in prima persona Papa Silverio, che per difendere il potere papale su Roma fu costretto, per il bene comune, ad accettare il giuramento di fedeltà ed a mercanteggiare un accordo favorevole al popolo dei Goti, comunque non bellicoso nei confronti del clero romano. L’accordo prevedeva che i romani qual’ora l’esercito bizantino fosse arrivato in italia, si sarebbero opposti oll’esercito bizantino in attesa di un esercito Gotico ben più potente che doveva discendere l’Italia dal nord. Il fine di Vitige imperatore dei Goti, era solo di rallentare e fiaccare l’ascesa dell’esercito bizantino, facendogli affrontare battaglie ed assedi lungo il percorso, qual’ora l’esercito bizantino fose arrivato da sud. L’accordo venne valutato da Papa Silverio per quello che rappresentava: un estorsione. Poco dopo l’accordo stretto con Vitige venne considerato nullo. Anche perchè il re Gotico, sapeva che i cittadini di Roma si sarebbero immolati per difendere l’autorità pontificia, se quest’ultima lo avesse chiesto. Ma probabilmente, non considerarò le capacità diplomatiche di Papa Silverio ed i suoi seguaci, e l’influenza che la religione poteva avere sui generali e sull’imperatore bizantino. Quando Belisario entrò a Roma per l’attuale porta S. Giovanni, venne accolto da Papa Silverio e da alcuni nobili con tutti gli onori. Belisario rimase affascinato dalla persona di Papa Silverio, uomo di carità ma di ferma ideologia apostolica e di cultura, tanto che dal colloquio, scaturì un rapporto di stima da parte del generale bizantino nei confronti del pontefice. La volontà da parte del pontefice di non riconoscere altro potere se non quello di Dio, destò probabilmente nel generale bizantino non poche preoccupazioni, sopratutto dal punto di vista militare per i danni che poteva produrre un lungo assedio di Roma, perchè l’autorità che il Papa rappresentava poteva essere utilizzata per aizzare il popolo di Roma contro l’esercito bizantino chiedendo la resistenza ad oltranza. E l’arrivo dell’esercito gotico avrebbe portato l’esercito bizantino oltre che a dover affrontare un lungo assedio anche a combattere su un secondo fronte con l’esercito dei Goti. Dal colloquio che Belisario fece con Papa Silverio, emerse l’amarezza di quest’ultimo per gli avvenimenti sanguinosi che seguirono alla presa di Napoli,e la susseguente richiesta di essere più magnanimo possibile con gli sconfitti. Belisario allora, ordinò l’immediata ricostruzione di Napoli e la restaurazione delle chiese distrutte, rassicurando i napoletani fuggiti dalla città che al loro rientro non sarebbe susseguita nessuna rappresaglia punitiva. Il pontificato di Papa Silverio proseguì tra mille difficoltà, aggravatesi sopratutto a causa dall’esercito dei Goti riorganizzatosi ed in assedio su Roma. Nonostante ciò si riuscì alla nomina di: 14 sacerdoti, 19 vescovi e 5 diaconi. Purtroppo, ben presto Papa Silverio attirò su di se le antipatie delle frange politiche più vicine alla imperatrice di Bisanzio: Teodora. Il Pontefice invitato a recarsi Bisanzio per risistemare le problematiche ecclesiastiche lasciate in sospeso dal suo predecessore Papa Agapito e che affliggevano il paese. Questa richiesta era mossa più da un fattore politico che religioso, infatti il patriarca Menna, reggente della chiesa di Bisanzio, era poco gradito sia all’imperatrice che a politici a lei vicini, e voleva rimettere al posto del patriarca un’altro prelato già cacciato precedentemente per accuse di eresia. Papa Silverio rispose all’imperatrice con una lettera dove manifestava la sua più profonda indignazione, per una richiesta cosi assurda, come era il rinsediamento di un eretico sul posto riservato ai discepoli di Dio. Con questa lettera Papa Silverio firmò la sua condanna a morte. Secondo gli scritti di Procopio, storico del generale Belisario, la regina Teodora scrisse subito una lettera al generale Belisario ed alla moglie, nella quale manifestava la volontà di deporre Papa Silverio, con qualsiasi mezzo, anche un semplice pretesto. Il potere conferito dal titolo di Patricius, permetteva al generale non solo di comandare militari e civili, ma gli conferiva anche il potere giudiziario e in mancanza dell’imperatore ne poteva prendeva le veci. Belisario, uomo fiero e di principio, non era molto propenso al tradimento nei confronti di Papa Silverio, al contrario della moglie Antonina bramosa di potere, che ben presto iniziò con la sua corte a muoversi contro il Pontefice. Furono diffuse una serie di voci infamanti, a cui si fece seguire una lettera falsa di Papa Silverio ai Goti. In questa lettera falsa, veniva espressa la volontà del pontefice di tradire i romani favorendo l’entrata di Vitige in Roma di notte, consentendo l’accesso per la “porta Asinaria” nei pressi del suo palazzo in Laterano. La lettera fu portata nelle mani di Belisario, che si limitò però solo a cambiare residenza, visto che era ospite nel palazzo Papale in Laterano ed anche perchè non era possibile verificare l’autenticità della lettera stessa. Ma il problema, fu solo rimandato.

LE ACCUSE ED IL PROCESSO

Anche se Belisario difficilmente avrebbe creduto alle accuse mosse contro Papa Silverio, dovette però, comunque procedere alla messa sotto accusa del Pontefice, spinto sopratutto dalle continue pressioni esercitate dall’imperatrice Teodora e da sua moglie Antonina. Da alcuni scritti, risulta che quando Papa Silverio fu chiamato a colloquio dal generale, non venne subito accusato e messo di fronte alle prove infamanti che documentavano il suo tradimento. Il generale tentò di mediare, infatti chiese prima ed inutilmente, se il papa fosse stato disposto ad esaudire alle richieste gia ventilate in passato dall’imperatrice Teodora. Il tentativo di mediazione fu inutile, poiché la risposta del Pontefice fu la stessa, nessuno poteva anteporsi al volere di Dio. L’unica difesa anteposta dal Papa alle accuse di Belisario, fu la protesta ferma e decisa, nonché l’impegno a trasferirsi lui ed i suoi seguaci presso la Chiesa di S. Sabina Sull’Aventino, donde destare qualsiasi tipo di preoccupazione al generale Bizantino, constatando; che quest’ultima era ben lontana da qualsiasi punto di accesso alla città. Tutto ciò non bastò a fermare il processo oramai in corso nei confronti del Pontefice. Si susseguirono le udienze, con l’assicurazione che mai sarebbe stato fatto del male al Pontefice, ma erano soltanto un paravento atto a dare un aspetto legale alla vicenda. In quel periodo si processavano sommariamente anche nobili e senatori, che avevano solo osato dare opinioni avverse al potere Bizantino. Il giuramento che Belisario aveva con il Papa, purtroppo non bastò ad assicurargli l’incolumità. Anche nella seconda udienza gli vennero lanciate le stesse accuse, ma si cercò comunque la mediazione, che sarebbe stata più soddisfacente sotto il profilo strettamente legale. Il parere fermo del Pontefice su come condurre la vicenda, era oramai chiaro anche ad i suoi accusatori. Probabilmente proprio dopo questo secondo incontro, Belisario meditò, anche per non perdere di potere e credibilità con i suoi seguaci, una soluzione drastica. Chiamato alla terza udienza il Pontefice fu interrogato ancora una volta, ma purtroppo l’epilogo fu diverso. Papa Silverio non usci più dal palazzo di Belisario come un uomo libero. Venne deposto con l’accusa di tradimento, condannato all’esilio e pochi giorni dopo sostituito con il cosidetto “Antipapa” Virgilio, imposto all’attenzione pubblica, dopo aver fallito per ben 3 volte il tentativo di farsi eleggere Papa. Virgilio fu imposto, perchè quello che aveva fatto Belisario era impensabile. Il Papa poteva essere deposto dal suo potere spirituale solo da una conclave apostolica, con motivi molto gravi: manifesta follia, eresia ecc. Quindi la soluzione era mettere al posto di Papa Silverio un prelato con poteri forti come Virgilio, in modo da giustificare la proclamazione come papa da Belisario e dalla sua corte. Mentre da altri prelati visto che Papa Silverio era ancora in vita, venne considerato diplomaticamente: vicario del Papa, soddisfacendo le esigenze di tutti.

L’ESILIO E L’ASSASSINIO

L’esilio di Papa Silverio, inizia con l’imbarco su una nave alla foce del Tevere più o meno nei pressi dell’attuale Ostia. Proseguirà costeggiando tutto il Tirreno, il mare di Sicilia e lo Ionio, per fermarsi a Pàtara in Licia città natale di San Nicola di Bari. Li venne accolto dal vescovo della città, che si fece carico non senza pericoli, di portare la parola del deposto Pontefice presso la corte Bizantina. Purtroppo il colloquio con Giustiniano fu infruttuoso, infatti dai documenti arrivati ai giorni nostri, l’imperatore Bizantino negò di sapere della vicenda e di non avere nessun coinvolgimento. Le continue insistenze del vescovo, spinsero Giustiniano ad approfondire la vicenda. Dagli elementi acquisiti, probabilmente l’imperatore non riuscì ad avere un quadro ben chiaro, perché con un decreto da lui firmato impose al generale Belisario di rivedere il processo. Inoltre nel decreto veniva specificato che: le lettere incriminanti dovevano essere riesaminate e se risultavano false, il Pontefice doveva tornare immediatamente al suo posto. Al contrario, se fossero risultate vere, Papa Silverio doveva essere destituito e nominato vescovo di una curia a sua scelta, che naturalmente non doveva essere nelle prossimità Roma. Dopo poco più di un mese in oriente, il Pontefice venne imbarcato su una nave che da Pàtara l’avrebbe dovuto riportare a Roma, almeno questi erano gli ordini. La nave in sosta a Napoli, venne raggiunta da una delegazione inviata da Papa Virgilio con il permesso del generale Belisario. La delegazione, aveva il compito di prendere in custodia cautelare Papa Silverio e di portarlo all’isola di Ponza, dove sarebbe rimasto, in attesa della riesamina del processo. San Silverio giunse a Ponza nei primi giorni di giugno del 537 e sbarcato senza che nessuno sapesse chi fosse quest’uomo, trovo ospitalità presso il convento benedettino dedicato a S. Maria. E’ da considerare che in quel periodo, San Silverio doveva avere all’incirca 60 anni, che non sono pochi per l’epoca. Già con molte probabilità, sofferente di diverse patologie normali per l’epoca, il clima umido e la vita spartana che si faceva sull’isola, non favorì il suo soggiorno. Il 21 novembre del 537 dopo pochi mesi sull’isola Papa Silverio si spense. La morte del Pontefice, come rilevato in alcuni scritti (Storia Arcana) di Procopio (Storico di guerra del generale Belisario), fu violenta e non dovuta alle condizioni ambientali. Papa Silverio fu ucciso, poiché anche se le sue condizioni fisiche con un prolungarsi del soggiorno isolano, lo avrebbero portato ben presto alla morte, era meglio affrettare i tempi. Il motivo della freetta probabilmente fu che alcuni vescovi a lui fedeli, non solo stavano preparando la difesa nella revisione del processo, ma si opponevano all’autorità di Virgilio con un forte ostruzionismo. Ed avevano manifestato più volte anche per iscritto, la volontà una volta ritornato Papa Silverio; che quest’ultimo emanasse un decreto di scomunica nei confronti dell’antipapa Virgilio. Questo provvedimento, avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche. La preoccupazione di uno scisma nella chiesa e sopratutto, la paura di insurrezioni interne alle mura di Roma; portò al complotto clerico-bizantino che si concluse con l’assassinio del Pontefice ad opera (Sempre secondo Procopio) di un certo Eugenio che fu l’artefice materiale del delitto. Secondo precisi riferimenti storici, le spoglie di San Silverio vennero tumulate nella chiesa benedettina di S. Maria, posto solitario per l’epoca ed a molti sconosciuto. Tutto ciò, per evitare, che venissero portate in vaticano ed esaminate, ma sopratutto che l’ubicazione della sua tomba fosse resa pubblica e quindi luogo di pellegrinaggi ed eventuale simbolo di scisma della Chiesa e sopratutto della città di Roma.

DOVE E’ SEPOLTO SAN SILVERIO

Il sepolcro di S. Silverio è da anni oggetto di studio, poiché la documentazione storica esistente, é poca e frammentaria. Di sicuro  subito dopo la morte, le spoglie del Santo furono affidate ai Benedettini che le tumularono nel monastero dedicato a S. Maria sull’isola. Il ragionevole dubbio che le spoglie non siano mai state portate in vaticano come per tutti gli altri papi, è approvato dal fatto che il nome di Papa Silverio non figura nell’elenco dei papi sepolti in S. Pietro. Non vi sono nemmeno documenti che possano confermare l’avvenuta traslazione, dal sepolcro originale a quello eventuale in S. Pietro. Secondo alcuni autori dell’Acta Sanctorum (Opera ciclopica che elenca i santi della chiesa cattolica ), la lapide del santo almeno fino ai primi del 1600, era ben visibile. Nello scritto, si afferma infatti, che sulla lapide del santo presso, cui si recavano ammalati ed infermi, si leggeva quanto segue:  “Romae supremus apex Silverium aedis ossa sub hoc retinet mortuus extraneo” – Sommo Pontefice della Romana sede, morto, tiene le sue ossa sotto questo marmo straniero.

Queste affermazione e questa frase, nonostante la fonte fosse attendibile, non hanno mai avuto un riscontro reale, dovuta al fatto che nessuno avesse saputo descrivere dove fosse ubicata la tomba. Se fosse così si avvalorerebbe anche l’ipotesi di Daniel Papebroch, anch’egli facente parte degli autori dell’Acta Sanctorum . Infatti il Papebroch afferma che le reliquie del santo non sono mai state traslate dall’isola. Se queste ipotesi dovessero risultare esatte, le spoglie del Santo potrebbero essere andate definitivamente perse. Lo scempio, commesso prima dai pirati siriani nell’813, dai coloni poi ed in ultimi analisi dalla moderna aggressione edilizia, potrebbero aver causato un danno irreparabile. Le spoglie del Santo, potrebbero essere state prese dai pirati e quindi bruciate o gettate in mare, poiché da alcuni documenti storici, risulta che le chiese dell’isola vennero rase al suolo. Potrebbero però, ipotesi molto probabile, ed ancor più agghiacciante per l’epoca in cui sono avvenuti i fatti; essere state sommerse dal cemento o gettate chissà dove, come resti di lavori di scavo, dai più o meno moderni coloni dell’isola, non troppo attenti ai beni archeologici.

Altra ipotesi interessante è quella fornita da alcuni studiosi del Santo. Molti affermano che le spoglie di San Silverio potrebbero essere state portate via anche dai monaci in fuga. Se l’ipotesi dovesse risultare fondata, le spoglie del santo si potrebbero trovare in uno dei tanti monasteri fondati dai monaci fugiaschi, tumulati in una tomba sotto nome generico per proteggerli da eventuali profanazioni. Il problema è, dove cercare? E se anche si riuscissero a rintracciare i movimenti di tutti i monaci, il problema rimane, perchè molti di essi si stanziarono lungo la costa, e furono soggetti ancora ad attacchi e depredazioni da parte dei pirati, e nulla avrebbe impedito di fare scempio delle spoglie del Santo.

In una ricerca storica risultò che nell’anno 817, Papa Pasquale I° ristrutturò quasi nella totalità la Basilica di S. Prassede in Roma, dove vi collocò le spoglie di numerosi martiri. Da ulteriori e più approfonditi studi, si scoprì che quelle tombe vennero usate per accogliere i resti di quei martiri le cui tombe erano state saccheggiate o che comunque erano in condizioni di completo abbandono. Studiando gli scritti sulle lapidi, si scoprì che i nomi di alcuni martiri, qui seppelliti, provenivano dai cimitero Ponziani. Tra di essi fu trovato il nome di “Candidae”, e cioè l’attuale Santa candida patrona di Ventotene. Questo ritrovamento provava che Papa Pasquale estese l’opera di traslazione dei santi anche nelle isole Ponziane. Purtroppo la ricerca a San Prassede non portò a nient’altro, anche perché con molte probabilità S. Silverio era stato tumulato tra i santi che in vita rivestivano importanti cariche ecclesiastiche. La ricerca continuò, perché anche dei resti della patrona di Ventotene non si sapeva più nulla. Purtroppo le uniche notizie incoraggianti, si limitano al fatto che nella stessa basilica vi sono sepolte le spoglie di ben 12 papi. Su queste lapidi però non vi è nessun nome, e questo fa pensare che fossero riservate a coloro che ancora non avevano una posizione ben chiara nella storia apostolica. San Silverio, negli antichi archivi custoditi in S. Maria Maggiore, viene considerato addirittura come Antipapa. Solo negli anni precedenti all’istituzione della festa e cioè più di 10 secoli dopo la sua morte, ne fu chiarita la posizione definitivamente, quindi una sua sepoltura in quelle tombe senza nome non è da escludere.

Solo nel 2006 dopo una ricerca commissionata dallo scrittore ponzese Ernesto Prudente ad un amico che collaborava con lui, nel reperire materiale per gli stessi via internet; sono uscite novità tutte da verificare. Proprio per la stesura del libro “Silverio, un nome per il mondo” sono uscite in una teca custodita in spagna in una piccola località chiamata Villavaido delle presunte reliquie ma tutto rimane ancora da verificare, e dopo la morte dello scrittore probabilmente nessuno lo verificherà mai.

Faraglione di S.Silverio – Isola di Palmarola

COSA HANNO IN COMUNE SAN SILVERIO E L’ISOLA DI PALMAROLA?

Non se ne sa bene il motivo, ma per anni nell’immaginario collettivo, l’esilio di San Silverio era stato identificato nell’isola di Palmarola. Il dubbio è stato creato negli anni, sopratutto dall’ignoranza di molti che consideravano come isole palmarie, Palmarola e gli scogli limitrofi e dalla presenza delle rovine di un piccolo monastero, che oramai sono visibili solo se si sa dove ceecarle perchè completamente rase al suolo. Nei documenti storici arrivati ai nostri giorni, si parla, per l’esilio di San Silverio, della maggiore delle “isole palmarie ” e non di Palmarola. Le isole palmarie erano rappresentate da tutto l’arcipelago e non dalla sola isola di Palmarola, e la maggiore delle isole è Ponza. Inoltre il convento dedicato a Santa Maria dove venne ospitato il santo, si trovava a Ponza, e per esattezza nella frazione che oggi si chiama appunto Santa Maria dove era ubicato l’omonimo convento. A tutt’oggi, si può dire con sicurezza che il santo non mise mai piede sull’isola di Palmarola, ed il suo esilio ponziano si limitò alla maggiore delle isole, cioè Ponza.

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