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DECAMERINO 20°Giorno - 'A RENA 'E PALMAROLA - di Raffaele Zocchi - 3^ e ultima parte - Ass. Cala Felci

DECAMERINO 20°Giorno – ‘A RENA ‘E PALMAROLA – di Raffaele Zocchi – 3^ e ultima parte

ULTIMA PARTE DEL LIBRO ‘ A RENA ‘E PALMAROLA

di Raffaele Zocchi

Una caccia al tesoro… molto speciale

Giggino tirò con un certo vigore le ultime due pagaiate, in modo che la prua della sua piccola canoa andasse ad arenarsi sulla spiaggetta di ghiaia con uno sfrigolio, unico suono che le sue orecchie percepivano in quella mattinata magica. Tirava una leggera brezza di levante che non riusciva ad increspare il mare, ma che dava un po’ di sollievo alla fronte e alle membra insultate dai raggi del sole, ancora forti in settembre. La spiaggetta si apriva in una piccola rada sulla quale incombevano a picco le rocce dai colori variegati. Il virgineo bianco del calcare veniva improvvisamente interrotto da chiazze di un marrone rossastro, come tracce di sangue raggrumito, oppure da esplosioni di giallo sulfureo sfumanti nell’anonimo beige del tufo. Tutte le coste dell’isola avevano questa caratteristica, per cui al viaggiatore che avvicinava al porto su di un traghetto o un aliscafo, si presentava uno spettacolo unico, una vera tavolozza di pittore inglobata nei due azzurri complementari del cielo e del mare. Il mare, sì, questo mare adamantino, questo mare da bere, questo mare capriccioso, che può essere consolatore o terrificante, ma il cui flusso risuona nelle vene e nella mente di chi è nato da queste parti. E proprio in questo mare si tuffò il nostro amico, dopo aver indossato muta, occhiali, pinne, coltello e fucile e cinta la vita con un retino. A Giggino quello che piaceva di più quando se ne andava “sommozzando” era l’osservazione del fondo del mare, il panorama offerto dagli scogli ricoperti di alghe multicolori, oppure glabri e punteggiati dalle tondeggianti patelle o dai ciuffi neri dei ricci maschi. I ricci femmine, viceversa, cercano di nascondersi negli anfratti degli scogli, adornandosi con fili di alghe o gusci di patelle. Ma la loro vanità finisce per tradirle, perché le rivela più facilmente ai pescatori in cerca delle loro uova. Ecco i branchi di salpe e di occhiate disegnare figure coreografiche, ecco le perchie che ti fissano curiose, ecco i polipi e gli scorfani in grado di mimetizzarsi, assumendo forma e colori dell’ambiente circostante. Ecco le murene che cercano la tana strisciando sul fondo, inseguite da un nugolo di pinterré dalla pelle variopinta. Ecco i guarracini e le vope nuotare a mezz’acqua, sempre in cerca di cibo. Ecco le cernie maestose far capolino dalle loro tane, sospese tra il timore dell’animale sconosciuto e la curiosità di osservarlo (e, se potessero, di sputargli in un occhio). Ecco, infine i saraghi, in squadriglie ordinate e compatte, pronte a dileguarsi al primo accenno di pericolo. Proprio qualche bel sarago era nel mirino del ragazzo, quella mattina, per cui, come gli aveva insegnato il suo maestro di caccia subacquea, si immerse in apnea e si acquattò in un anfratto tra due grossi scogli, con i ciuffi di posidonia che lo nascondevano alla vista delle ignare prede e stette fermo per qualche minuto. Dovette ripetere l’immersione per tre volte, fino a che, alla quarta, un bel sarago puntuto, alla ricerca di qualche cosa da mangiare, gli passò proprio davanti. Un attimo e l’arpione lo passò da parte a parte, provocando lo scompiglio nel resto del branco che si disperse a tutta velocità. Giggino lo sapeva che, ormai, con quel branco, l’allarme era scattato e sarebbe stato molto difficile catturare un altro esemplare, per cui o doveva cambiare posto oppure cercare altre prede. E una ve n’era a pochi metri, una bella cernia rintanata, che lui aveva visto di sottecchi mentre si celava nel suo nascondiglio. Arpionarla non fu difficile, il problema fu tirarla fuori dalla tana; ma con molta tenacia e abilità il nostro eroe vi riuscì. Un polpo di circa un chilo, che si era avvicinato attratto da tutta quella confusione, fu la terza cattura di quella giornata. Il ragazzo pensò allora di riposarsi un po’ sulla spiaggetta, tolse la muta, sistemò i pesci nel retino ben chiuso e si distese sui ciottoli, appisolandosi al tepore del sole. A un tratto un oggetto duro e freddo, portato dalla risacca, gli urtò un piede che era proprio sulla battigia. Era una bottiglia marrone, di quelle che si usano per la birra, ma la cosa sorprendente era che un tappo di sughero ricoperto di ceralacca la chiudeva in modo da renderla impermeabile e salvaguardare il rotolino di carta che s’intravedeva al suo interno. Giggino si ricordò di quelle storie avventurose che era solito leggere da fanciullo, o sentire dalla voce del nonno, nelle quali naufraghi disperati affidano al mare i loro messaggi, oppure amanti delusi, che sperano di alleviare le loro pene d’amore confidandosi con il mare o, ancora, pirati che,
braccati da galeoni imperiali, lanciano a mare le mappe per ritrovare i loro tesori. Con un colpo del suo coltello da sub il ragazzo stappò la bottiglia e ne estrasse un piccolo rotolo di carta pergamena, perfettamente asciutto. Spiegato, il foglietto si presentava così:

SATOR, AREPO… E che vuol dire, si chiedeva stupito Giggino; più familiari gli erano le due mappe dell’isola sulle quali una crocetta aveva indicato un punto preciso. Giggino si scervellò un poco, poi rimise la pergamena nella bottiglia e ritornò a casa per godersi il suo pescato insieme con la sua famiglia. Ma il pensiero tornava sempre a quel foglietto e all’enigma che nascondeva. Quella notte Giggino ebbe un sonno molto agitato, sognò che il nonno andava a pescare con le reti e quando le tirava a bordo trovava impigliata nella rete una grossa pietra quadrata con le stesse scritte del foglietto. La mattina dopo Giggino ebbe un’idea: la persona più colta dell’isola era una professoressa sulla cinquantina, che insegnava latino e greco al liceo classico di Formia. Ma oltre a questo era una persona dalla profonda cultura, amante della musica e della poesia; la sua biblioteca occupava un’intera stanza della sua casa ed entrarvi generava sempre un senso di soggezione. Il ragazzo conosceva questa soggezione, perché la professoressa abitava poco distante dalla sua casa ed era in buoni rapporti con la sua famiglia; alcune volte la mamma lo aveva inviato a casa della professoressa a portarle uno dei pesci che aveva pescato, ricevendone in cambio cioccolatini, biscotti e, una volta, una bellissima edizione illustrata de “I tre Moschettieri” di Dumas. A chi, se non a lei, chiedere aiuto per quelle misteriose parole che sembravano latine? Detto fatto, il ragazzo chiese alla madre il permesso di portare il sarago in dono alla professoressa, lo prese e si presentò all’uscio della donna con il sarago in mano. Dopo i convenevoli d’uso, Giggino estrasse il foglietto
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dalla tasca e lo porse alla donna, chiedendole se lei sapeva interpretare quello strano cruciverba. Lei, senza neanche inforcare gli occhiali che portava appesi al collo con una catenella dorata, subito esclamò: “Ma si tratta del quadrato magico palindromo! È proprio lui!” Giggino, che non voleva fare la figura del completo ignorante, disse: “Ah… è proprio lui il quadrato magico pa… pa…” “Palindromo!, disse Annamaria – tale era il nome dell’insegnante di humanae litterae – palindromo perché tutte le parole possono essere lette sia da destra a sinistra che da sinistra a destra. E nel quadrato si possono leggere sia nelle righe che nelle colonne. Questo quadrato ha un’origine antichissima, i primi esemplari noti risalgono al primo secolo dopo Cristo e si trovano in molti posti nel mondo. Uno dei più famosi, in pietra, si trova a Pompei e somiglia molto a questo che è riprodotto su questo foglietto.” “Ma esattamente, che cosa vuole dire?” chiese Giggino.” “Bella domanda, Luigi (chissà perché lei lo chiamava sempre così). Vi sono tante possibili traduzioni, ma quella che mi sembra la più logica è quella più letterale: Il Seminatore con il Carro Tiene con Cura le Ruote. Ma quel punto sulla piantina dell’isola che cosa indica? Sembra una caccia al tesoro!” “Quel punto indica la spianata sul Monte Guardia, dove c’è quello che chiamano il Semaforo” disse Luigi.
“Bene, allora andiamo a vedere se troviamo qualche cosa che abbia a che fare con il seminatore e il carro. Aspetta che mi metto le scarpe adatte”. Dopo qualche minuto comparve vestita con una tuta sportiva e scarpe da ginnastica e si avviò con passo svelto sulla salita che conduceva alla vetta dell’isola. Il sentiero si snodava tra la tipica macchia mediterranea, lentisco, mortella e guastaccette si alternavano a ginestre, lauri, pungitopo e rovi di more. Il sentiero in realtà era più adatto alle capre che agli umani, ma i nostri due amici se la cavavano bene a saltellare da un masso all’altro. Anche Annamaria saliva con passo spedito: era alta e magra; il naso diritto e affilato profilava un volto dai lineamenti marcati. Quando giunsero sulla cima della salita, sul pianoro che la dominava, si fermarono per tirare il fiato ma anche per ammirare la struggente bellezza del panorama, esaltato dal vento di maestrale, lo spazzino del cielo. Sull’infinito mare, le sagome delle isole sembravano navi alla fonda e all’orizzonte il profilo del continente, con l’incombente sagoma del Monte Circeo, sembrava un’altra isola e forse lo era stata al tempo di Ulisse: l’isola di Circe. Da un lato la vista spaziava da Gavi a Zannone, passando per le Scoglietelle; dall’altro imperava, solitaria, Palmarola e in mezzo la punta acuminata della Botte precedeva la gobba di Ventotene e, sullo sfondo, l’alta vetta dell’Epomeo.
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“Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno” avrebbe certamente esclamato Giacomo Leopardi se fosse riuscito ad arrivare fin lassù. Ma era tempo di cercare il punto indicato sulla mappa: Giggino, da bravo ragazzo moderno supertecnologico, aveva fotografato la mappa con il suo telefonino e ora si era collegato al satellite per individuarlo sul posto reale. “Camminate per 50 metri verso SUD” recitava la voce del navigatore, anzi della navigatrice, visto che era una voce femminile. Poi “Proseguite per 100 metri a Nord Est, poi per 200 alla vostra destra e sarete a destinazione.” Giunti sul punto, i due restarono di sasso: sotto una spessa coltre di foglie e rami si vedeva un carrettino di legno, come si usavano una volta nelle campagne e anche in città, tirati da un mulo o un cavallo o da un ragazzo. “Ecco l’arepo, il carro del seminatore! esclamò la professoressa. Ma perché l’autore del messaggio ci ha fatto venire fin qui? Che cosa voleva comunicarci?” Mentre lei parlava, il ragazzo aveva ripulito la carretta da tutti i rami e le foglie e ora stava cercando di spostarla, senza riuscirvi, perché le ruote erano bloccate. Allora Gigino s’infilò sotto il pianale della carretta per vedere se riusciva a sbloccarle e ne riemerse con una bottiglia in mano, uguale a quella che aveva trovato in mare. Dentro vi era un altro foglietto di carta che riportava la seguente scritta: “Bravi, siete riusciti ad arrivare sin qui! Ed ora risolvete questa sciarada”.

                                   Il ben degli occhi preservar tu sai

Oppur donarlo a chi non l’ebbe mai.

Nel tuo nome parole si son sparse,

Ma solo un libro in convento arse.

Da te mirar si può quell’isoletta

Che dalle palme il suo nome trae

Dirigi lì la prora senza fretta

E del sole il bagliore tu vedrai

I due si guardarono un po’ esterrefatti: non erano molto ferrati in enigmistica. Poi, a poco a poco, si fece luce nella mente di Annamaria. “Il ben degli occhi… ma sì, è sicuramente Santa Lucia, la santa della vista. Nel tuo nome… ecco, ci sono, si tratta del Nome della rosa di Umberto Eco. Non aveva neanche finito di parlare che Giggino si illuminò d’un colpo, esclamando: “Lucia Rosa, la spiaggia! Ci siamo!” “Ma come ci arriviamo a Lucia Rosa? chiese la professoressa. È accessibile solo dal mare!” “Nessun problema, il mio amico Vincenzino ha ancora la barca a mare e sicuramente ci darà un passaggio!” Detto fatto, un colpo di telefonino e dopo mezz’ora i tre erano sulla barca in direzione Lucia Rosa. Non appena doppiarono i faraglioni, un bagliore proveniente dal centro dell’insenatura attirò la loro attenzione. Una lattina, ben ancorata a mo’ di coffa, era l’origine di quel riflesso. “Ecco il bagliore del sole! Presto, prendiamola!”
Indovinello:

                                   Non traggati in inganno il nome suo

Che ad aroma sacro fa pensare:

A monaci rivolgi il pensier tuo

E di certo saprai dove andare

                                    A ritrovar del seguito il cammino.

Ancora un enigma! I due ragazzi si guardavano in faccia cercando di interpretaquesti strani versi e ogni tanto sbirciavano il volto di Annamaria nella speranza che si illuminasse. “Non traggati in inganno il nome suo che ad aroma sacro fa pensare…” Qual è l’aroma sacro per eccellenza? Fu Vincenzino, che da poco si era cresimato a rispondere “L’incenso! Certo, l’incenso, ma che c’entrano i monaci?” E qui intervenne Annamaria: “Ma che stupida a non averci pensato! Punta Incenso si chiama così, ma l’incenso non c’entra niente! Il nome deriva da una corruzione dialettale del temine Circestensi (’a ponta ’o ccienso), i monaci che proprio in quel luogo avevano costruito un Monastero!” Detto fatto, i tre ritornarono al centro, montarono sulla piccola utilitaria di Annamaria e si diressero a tutta birra verso l’estrema punta settentrionale dell’isola, non mancando di ammirare le splendide cartoline che la bellissima giornata settembrina offriva ai loro occhi lungo il percorso, la via Panoramica prima e la provinciale per Le Forna poi. A ogni curva un nuovo squarcio, un nuovo paesaggio si apriva loro e non finiva mai di stupirli, anche se vi erano avvezzi. Giunsero a punta Incenso, dove finiva la carrozzabile, e si inoltrarono a piedi verso l’estremità della punta. Lo spettacolo era superbo: piccole scie bianche sfregiavano il blu cobalto del mare; Gavi era proprio sotto di loro e Zannone sembrava si potesse toccare. A un tratto videro qualche cosa che poteva essere stata messa lì solo a bella posta: una piccola nassa, tutta dipinta con vernice metallica, che la faceva brillare ai raggi del sole. Giggino infilò la mano nel buco superiore della nassa e tirò fuori una bottiglia, anch’essa verniciata e accuratamente tappata. Dentro, trovarono la solita pergamena e il messaggio seguente:

“Ora dovete risolvere l’ultimo indovinello:”

                                    Se salir tu vorrai le antiche scale,

per la loggia che espone il tricolore,

ricordarti dovrai di quell’eroe

dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro.

Al nome suo è legato questo luogo,

dove una pietra porta inciso

il nome d’un patriota antico e a lei di fronte

Mamozio ci ricorda tutti quelli

Che nelle guerre persero la vita. 

Questo era sicuramente il più facile di tutti, perché quasi subito capirono che si trattava della piazzetta intitolata a Carlo Pisacane, davanti alle scale che portano al Comune, dove una lapide ricordava Luigi Vernau, patriota del 1799, di fronte al monumento ai caduti, detto anche il Mamozio. Detto fatto, i tre ritornarono a Ponza e si precipitarono nella piazzetta, dove – sorpresa – trovarono ad attenderli il sindaco con tutto il consiglio comunale, la banda del paese e una troupe di operatori, capitanati da una nota presentatrice televisiva, che andò loro incontro e finalmente spiegò tutto l’arcano, tutta quella speciale caccia al tesoro che li aveva fatti correre da un capo all’altro dell’isola. Si trattava di un evento organizzato da una nota agenzia pubblicitaria che aveva l’incarico di valorizzare il nome e le bellezze dell’isola, ricevendone in cambio una percentuale dei proventi dei flussi turistici, se questi si fossero effettivamente incrementati, soprattutto nelle stagioni “morte”. Tutto il loro percorso era stato ripreso da un drone e da telecamere fisse opportunamente disposte: il tutto sarebbe diventato un documentario da far girare in tutto il mondo e di cui loro erano gli involontari coprotagonisti, i protagonisti essendo i luoghi e i panorami dell’isola. La loro soddisfazione maggiore era, ovviamente, quella di essere stati attori per caso. Ma furono ancor più soddisfatti per i regali che ricevettero: Giggino ebbe un magnifico completo da sub ipertecnologico, come ipertecnologico
era il set per la pesca che ricevette Vincenzino. Meno tecnologici, ma altrettanto graditi, furono i bellissimi volumi sulle origini storiche e morfologiche dell’isola, corredati da splendide fotografie, che ricevette la professoressa Annamaria.

 

Tramonto a Chiaia di Luna

Infinite sfumature, inedite tonalità di colori

il tufo genera del sole nel mar di ponente

che le assorbe e con le proprie mescola,

e così fanno la roccia della falesia

ed il terso cielo finalmente rinfrescato,

e i volti dei radi bagnanti che si attardano

per catturare gli ultimi raggi

e le ali dei gabbiani eternamente vaganti

tra gli scogli, le onde e gli scoscesi dirupi.

Così scende la sera e l’isola ancora muta

la sua immagine, si adagia nella brezza

di maestrale, che trasporta i suoi profumi,

si compiace per i sentimenti che generano

le sue cale, le sue grotte, i suoi anfratti magici

ancora nell’incombente notte,

la bianca luce lunare esaltando

la sua ruvida e scontrosa leggiadrìa.

 

La mia terra

Terra di fuoco,

che dalle tue visceri

sgorga

e invade

e pervade

il sangue delle tue genti,

che, pura follia,

ardono nel soffio

rovente dello scirocco.

Terra d’acqua,

che placa l’arsura del fuoco,

e ricorda

e propaga

il dondolio infinito

della sua onda

nelle vene dei tuoi figli.

Terra di pietra,

che indurisce

e fa grevi le parole

che altrove

aleggiano lievi

e qui infrangono

animi e cose.

Terra d’aria,

crocevia dei venti,

che ora imbiancano

le tue cime,

ora arroventano

le tue zolle,

ora rovesciano

le tue barche,

ora danno

frescura e sollievo.

Terra

nobilissima e plebea,

credente e blasfema,

solidale e spietata,

rigogliosa e sterile,

come si fa

a non amarti?

Come

a non odiarti?

I tenui colori

pastello non allocano

in te.
fine

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